Il tempo degli eroi - Anna Maria Bonavoglia

5° class. al II Concorso Letterario Internazionale Repubblica di San Marino

Pubblicato in "E' Sempre Tempo di Eroi" - Ed. Il Cerchio
Illustrazioni di Dalmatius P. Frau

Il Tempo degli Eroi è ambientato in un magico mondo parallelo alla Terra. Ed i suoi musicisti sono il LabGraal di quelle terre...

... Una era Gea e la stessa una era Rea. Danzavano insieme le sorelle attorno al rovente padre Nutritore e la loro danza era vita. Poi corse Gea lontano, inseguendo una sfera di fuoco, e sola e triste rimase, la gemella, nella sua danza di rimpianto... Suo compagno fu allora il ricordo d’un altra se stessa che vagava perenne nei cieli opposti...
(Dal Sacro Testo delle Origini - Cap.II.)

Il sangue e la polvere macchiavano il volto pallido del prigioniero: le guance scavate erano rigate da lacrime e sudore, mentre i lunghi capelli fiammanti, intrisi di sangue, cadevano in ciocche scomposte sulle spalle curve e scosse da tremiti.
L’Inquisitore si appoggiò soddisfatto contro il soffice schienale del suo scranno.
Gli occhi color del ghiaccio, illuminati da una spietata luce di follia indugiarono con voluttà sul corpo sottile dell’uomo che, come la marionetta di un gigante crudele, pendeva inerte, le gambe piegate e le braccia ferite sollevate, serrate alle spesse catene di bronzo che pendevano dalle umide mura della segreta.
“Dimmelo di nuovo, cantore - la sua voce era modulata, soffice come un drappo di seta e tagliente come le sottili lame del carnefice. - Raccontami ancora di come tu sia solo un musico ambulante...”
Si passò la lingua sulle labbra pallide, incurvate in un sorrisetto crudele.
“Anzi, canta... Deliziami della tua arte.- sibilò duro - E’ così piacevole stare in tua compagnia... E il suono della tua voce, sotto la sapiente guida del Mastro Carnefice mi è dolce come musica...”
Il giovane non si mosse, il capo abbandonato sul petto ferito.
L’Inquisitore scosse il capo, si mordicchiò assorto la punta di un dito curatissimo poi i suoi occhi ebbero un guizzo e si fermarono in quelli, attenti, del Mastro Carnefice.
L’uomo, che indossava spesse brache di cuoio e pesanti guanti decorati da borchie di metallo fece un passo verso il cantore, mentre il colossale petto, umido di sudore, brillò alla luce delle torce.
Con un unico gesto gli afferrò i capelli e gli sollevò di colpo la testa.
“Il Monsignore ti ha chiesto di cantare...”
Il giovane aprì gli occhi pesti, appannati da un velo di sofferenza.
Il suo viso era una macchia livida, contornata da una corta barba rossiccia incrostata di sangue e muco.
“Per amore degli Dei, Monsignore...- ansimò con voce rotta - Non vi ho mentito. Sono solo un musico girovago...Io...”
Il volto di pietra dell’Inquisitore divenne una gelida maschera di ferocia.
Un sorriso malefico gli sfregiò le labbra, poi guardò ancora il Mastro Carnefice ed annuì.
Quando le tenaglie arroventate azzannarono la carne martoriata del cantore un grido altissimo si alzò tra le volte della cella, echeggiando cupamente tra gli antri fumosi che si susseguivano nelle spaventose segrete del Palazzo.
E brividi crescenti di piacere cominciarono ad attraversare le membra frementi di Maxmus, Inquisitore supremo del regno.

Gli occhi color del fumo di Miriel la Cantatrice smisero di fissare le braci nel cratere di bronzo e si posarono, gelidi, sui volti ansiosi dei musici e dei danzatori seduti come lei nel cerchio della Vista.
Scosse lentamente il capo: c’erano troppe ombre e troppa magia nemica...
Erano passati ormai troppi giorni da quando il giovane Caled era partito: nemmeno una sbronza colossale o le soffici lenzuola di un bordello ospitale avrebbero potuto tenerlo per così tanto tempo lontano dall’accampamento, dai suoi compagni e soprattutto dal suo prezioso strumento... e un uomo non può restare così a lungo lontano dalla sua anima, senza impazzirne.
I carrozzoni dei musici e quello dei ballerini girovaghi erano arrivati nelle nebbiose terre della Contea di Nimia più per caso che per vera scelta.
La grande strada di pietra che conduceva alla mitica città di Taura all’altezza di una vecchissima torre di guardia si biforcava in due sentieri gemelli e divergenti: uno conduceva all’estuario del grande fiume ed ai mille sofisticati, turbinosi piaceri della capitale, l’altro si addentrava nell’entroterra, verso la solitaria Valle di Nimia e la sua antica città militare, Castrum Montana.
Nata come semplice acquartieramento, Castrum Montana - che tutti chiamavano Città della Fortezza - si era pian piano ingrandita e sviluppata fino ad estendersi lungo i fianchi della montagna dominata dal forte e in tutta la vallata sottostante, chiusa a nord dalle invalicabili montagne oltre le quali erano i gelidi ed selvaggi territori dell’Eterna Notte Qualcuno del gruppo aveva osservato, senza convinzione, che sarebbe stato interessante fare una sosta anche lì e Miriel La Cantatrice e Dubric il Bardo - guide spirituali del gruppetto - stranamente l’avevano trovata una buona idea: tutto sommato Castrum Montana era una città prettamente militare, appartata e visitata raramente dai viaggiatori, e forse gli abitanti avrebbero accolto con favore qualche spettacolo con canzoni sacre e le antiche ballate degli eroi.
Però l’esperienza accumulata nei lunghi anni in giro per le strade di Rea aveva loro insegnato che non era mai prudente addentrarsi in una città - soprattutto se mai visitata prima - senza un preventivo sopralluogo e magari una visita al capo spirituale o militare della città.
Solitamente questo compito era affidato a Dubric, l’imponente servitore del Dio Luce ai cui occhi nerissimi e penetranti ben poche cose riuscivano a sfuggire.
Per questo, quando giungevano nei dintorni di una nuova città, mentre gli altri tessevano una ragnatela di ombre con la quale celavano i loro carri, Dubric prendeva con sé l’insegna della congregazione dei Musicisti e si recava in esplorazione.
Ma quella volta, quell’unica volta, il vecchio saggio aveva ceduto alle insistenze del giovane Caled, e gli aveva permesso di recarsi al suo posto nella nuova città.
Misterioso e taciturno, Caled dalla rossa criniera non aveva alcun passato, nessun ricordo, come se li avesse cancellati per non morirne: solo i suoi occhi color dell’oro fuso, talvolta, quando la mente sfiorava distratta i segreti anfratti della memoria, diventavano splendenti, come scrutassero un grande amore o un dolore infinito.
Da quando era scomparso gli occhi di tutti erano spesso fissi sull’elegante cornamusa, appoggiata sul suo giaciglio come un’amante in attesa: si mormorava, infatti, di un oscuro ed arcano legame che univa lo strumento al giovane, e che la distruzione di uno sarebbe stata contemporaneamente la fine dell’altro.
Miriel La Cantatrice si alzò con un movimento morbido.
“Non riesco a vederlo. La magia che incombe in questa valle è troppo forte e troppo antica... Se cercassi di forzarla, rischierei di farmi scoprire.” Disse con voce modulata.
Hyede il Tonante scosse il capo.
“Dobbiamo cercarlo. Per i quattro Dei della Notte, se qualcuno gli ha fatto del male io...”. Il secco rumore del grosso ramo nodoso che si spezzava nelle enormi mani fece eco alle sue parole.
Miriel scosse il capo.
“Calmati Hyede. Lo cercheremo, stanne pur certo, ma dovremo farlo con cautela e attenzione, e senza dare troppo nell’occhio. Questo posto non mi piace e poi... non vorrei che fossero arrivati anche qui quei bandi di ricerca che abbiamo visto nelle ultime quindici città in cui ci siamo accampati...”
Heyde si batté i pugni sui poderosi avambracci, poi fece un sorrisetto feroce.
“Quei bandi parlano di un certo Arkenos, un pazzo assassino forte e furioso come un toro che ha massacrato diversi villaggi su a Badalaga. Io invece sono solo un povero musico ambulante, orfano e senza nessuno al mondo” concluse, sferrando un pugno di acciaio contro un giovane albero, abbattendolo.
L’abbronzatura e la corta barba castana riuscivano a malapena a nascondere le sottili cicatrici verticali che attraversavano il suo viso squadrato, molto simili a quelle lasciate dalle maschere di cuoio dei Gladiatori di Parr... La più mortale razza di mercenari che mai avesse calpestato il sacro suolo di Rea.
Dubric, che fino a quel momento se n’era restato in silenzio alzò le mani con un gesto lento e solenne poi disse con la sua voce pacata, che sapeva infondere la calma anche negli animi più accesi.
“Miriel ha ragione. Dobbiamo essere cauti... Quando spunterà l’alba io e lei andremo in città: anche se non abbiamo più l’insegna della nostra Corporazione, perché Caled l’ha portata con sé, il Salvacondotto dell’Imperatore Evan II ci proteggerà anche in questa terra...
Forse il ragazzo si è messo in qualche guaio con le autorità del luogo: con un po’ di fortuna lo ritroveremo in una cella, magari in attesa che qualcuno di noi vada a tirarlo fuori...
Silneus il Mistico mosse le lunghe dita sottili e livide, facendole danzare nell’aria con gesti veloci ed eleganti e subito ne emerse un suono modulato: la sua gente considerava la voce un suono impuro e recideva le corde vocali ai bambini appena nati, inserendo nelle loro mani quelle minutissime e dolorose lamelle che sarebbero diventate il loro unico mezzo di comunicazione.
Dubric sorrise lievemente, poi i suoi occhi profondi si posarono sui danzatori che se ne stavano seduti stretti l’uno all’altra , allungando le braccia sottili e tatuate con disegni oscuri verso il calore che emanava dal braciere di bronzo.
Da poco aggregatisi ai musici, non avevano mai nemmeno tentato di diventare parte del loro gruppo preferendo, durante i viaggi o nelle soste notturne, restarsene appartati, a celebrare strani riti per i loro Dei raminghi.
Una delle donne, che inalberava una scomposta cascata di riccioli color del miele su di un corpo flessuoso come un giunco dei fiumi, alzò gli occhi che splendevano immensi sul volto minuto e pallido e disse piano:
“Per noi va bene. Abbiamo imparato ad rispettare il giovane Caled, e poi le nostre danze hanno bisogno della sua musica...” la sua voce era roca e insicura, come quella di coloro abituati a tacere.
Gli altri ballerini annuirono, senza fare ulteriori commenti, e sul gruppetto di girovaghi cadde il silenzio.
Dubric non sorrise, poi si avviò lentamente verso il suo carro e Miriel La Cantatrice, che fino a quel momento aveva continuato a osservare il vento freddo tra le foglie degli alberi, lo seguì con un sospiro.

Gli occhi gelidi e feroci di Maxmus scivolarono maligni e sospettosi sui volti fieri dei due postulanti; si accarezzò il corsetto di pelle nera, morbido come seta frusciante, poi chinò leggermente il capo di lato e sospirò.
Il salvacondotto era autentico ed il potere dell’Imperatore Evan II era assoluto anche lì: nemmeno nell’isolata Valle di Nimia qualcuno poteva pensare di infrangerlo.
Con un sorrisetto affettato sulle labbra sottili si alzò dal suo comodo scranno che campeggiava nell’immensa sala di pietra e fece qualche passo, passandosi la mano guantata di nero sugli occhi stanchi: era stata una lunga notte...Si schiarì la gola poi disse con la sua voce morbida e tagliente allo stesso tempo:
“Per me va bene, cantori: non sia mai detto che Maxmus, Inquisitore del Regno e Reggitore della Fortezza di Nimia non rispetti gli ordini dell’Imperatore Evan. C’è giusto una piazza sterrata, poco lontano, dove potrete accamparvi: la mia gente sarà lieta di potervi ascoltare. Anzi, la prima rappresentazione la farete qui al palazzo e stanotte sarete miei ospiti: adoro le antiche ballate che parlano degli eroi, ed è tanto tempo che non ne sento una...
Dubric scrutò attentamente la figura robusta che gli si era avvicinata e suo malgrado rabbrividì.
In tutta la sua lunghissima vita non aveva mai percepito un’energia così totale ed assoluta, selvaggia quasi. Eppure imbrigliata da una volontà di acciaio, gelida come gli occhi che toglievano al suo viso ogni parvenza di umanità.
Anche Miriel aveva alzato gli occhi color del fumo ed aveva guardato l’Inquisitore oltre l’apparente aspetto fisico e per un lungo istante le era parso di osservare un sogno.
Due Aure: quell’uomo aveva una doppia corona attorno al suo corpo mortale, due anime, due spiriti eterni...
Un Eroe...non credeva che ce ne fossero ancora: si diceva che gli ultimi fossero stati distrutti nella Battaglia Innominabile, molti secoli prima, nell’ultimo scontro con gli eserciti del Bedai.
Rabbrividendo distolse lo sguardo dalla Visione: un Eroe, ancora uno. Come quelli cantati nelle ballate in ogni angolo di Rea.
Suo malgrado nella memoria si affollarono le immagini del glorioso esercito che partiva verso le Terre Oltre per fermare l’invasione dei Bedai.
Erano forti sprezzanti, fieri.
Campioni e sovrani delle loro terre si erano uniti alla Compagnia dei Prescelti ed erano andati incontro alla morte cantando, per difendere un sogno, un ideale, e la carne ed il sangue del mondo da un destino al di là dell’immaginabile.
Erano partiti, si erano più volte scontrati con le putrescenti orde del nemico, scoprendo ogni volta che la morte è ben altro che una canzone, ma avevano proseguito, fin nel cuore delle terre dell’Eterna Notte, fino alla Fortezza Centrale, per sferrare l’ultimo attacco.
E lì, in un’alba color del vino, ogni eroe aveva sguainato la sua arma, uscendo dalla Storia ed entrando, in quel preciso istante, nella Leggenda.
Il popolo dei Bedai non invase l’Impero, ma gli eroi non tornarono.
Mai più.
Miriel scosse leggermente il capo, per scacciare quei ricordi non suoi e forse qualche lacrima, e abbassò la testa come per cercare una piega sulla lunga veste nera che le copriva il corpo flessuoso.
Dubric, nonostante la massiccia mole e l’età si inchinò con eleganza poi disse cerimoniosamente:
“I tuoi desideri sono per noi ordini, mio signore, ma prima di ripartire verso il nostro accampamento vorrei rivolgerti una supplica...”
L’Inquisitore voltò di scatto la testa e il suo profilo si stagliò nella luce della feritoia nel muro: un volto duro e squadrato, tagliato con l’ascia nella pietra...
“Dì pure, musico...” la sua voce era incuriosita e guardinga.
“Uno dei nostri musicanti, un giovane prezioso e buon servo dell’Imperatore, è scomparso qui nella tua città. Sono diversi giorni ormai... Lo amiamo come un figlio, te ne prego: aiutaci a ritrovarlo...”
Maxmus rimase impassibile, non lasciando trasparire il minimo stupore.
Si limitò a socchiudere gli occhi feroci ed a scrutare ancora più attentamente le due figure che gli stavano davanti.
“Un musicante, dici? Ed è scomparso proprio qui a Città della Fortezza? Questo è molto grave: sono io stesso che mi occupo della sicurezza interna, e darò immediate disposizioni perché il vostro compagno sia cercato. Spero solo non si sia imbattuto in qualcuno dei malfattori che ancora si annidano nei bassifondi della città... Ordinerò immediatamente un’indagine e vi farò sapere.”
Non aggiunse altro e il suo silenzio fece capire che l’udienza era terminata.
Miriel, che era rimasta con il capo chino, non poté fare a meno di alzare lo sguardo sull’Inquisitore per vedere ancora una volta la doppia Aura degli Eroi.
Una delle due corone di energia risplendeva di una luce nera, mentre attorcigliata attorno a questa, era una meravigliosa corda di luce d’oro.

Gli occhi color dell’oro fuso splendevano sul volto tumefatto e seguivano, accesi da un nuovo barlume di speranza la robusta figura vestita di nero che, alla luce lattiginosa del giorno, camminava nervosamente su e giù per la stanza di pietra.
Quando, quella mattina, gli avevano staccato le pesanti catene dai polsi e lo avevano portato fuori dalle segrete, aveva pensato che l’Inquisitore non aveva più voglia di divertirsi con lui, e che l’ultima tappa del viaggio sarebbe stata l’ascia del Boia.
Invece era stato trasportato su per le innumerevoli, ripide scale di una torre, fino ad una stanza che, pur non essendo esattamente confortevole era pur sempre diversa dall’antro in cui aveva subito le sottili atrocità escogitate dal Mastro Carnefice e la feroce implacabilità di Maxmus.
Era stato proprio lì che, inaspettatamente, aveva ritrovato l’Inquisitore, che si era limitato a squadrarlo, scuotendo il capo, per poi iniziare a passeggiare in su ed in giù per la stanzetta, come preda di un dubbio lacerante.
D’un tratto si fermò vicino ad una delle feritoie nel muro, ed iniziò scrutare il cielo lontano.
“Sei un bel problema, musico” disse lentamente. “Perché sei effettivamente un musico - e per di più idiota - che si è fatto abbindolare dagli occhi di velluto di una puttana qualunque, giù alla locanda...”
Caled sussultò: tutto quello che ricordava erano un paio di occhi grandi e ardenti e delle labbra morbide, dolci come il miele.
“ E dopo averti drogato ti ha fatto spogliare dal suo protettore e ti ha scaricato nel punto più lontano della città.- proseguì l’altro - Dove ti hanno trovato le mie guardie... Bhe, se non altro il tuo ostinarti a non confessare non è colpa dell’imperizia del carnefice, o mia...”
Voltò la testa di colpo: un sorrisetto crudele a sfregiargli le labbra.
CaIed chiuse gli occhi per un istante, rabbrividendo al ricordo, poi sussurrò, muovendo a fatica le labbra spaccate e tumefatte:
“Allora è tutto a posto, Monsignore.”
Gli occhi di ghiaccio s’incupirono.
L’Inquisitore si voltò lentamente, poi incrociando le braccia sul petto disse a bassa voce: “Davvero, musico? Davvero credi che io possa lasciarti andare solo perché sei innocente?” Caled scosse la testa, stranito.
“No?” chiese con voce piatta.
L’altro non rispose: gli si avvicinò, invece.
Strinse lentamente i suoi occhi di ghiaccio, lasciò che lo sguardo scivolasse sul corpo lacero e ferito del musico poi si soffermò sul viso cercandone gli occhi color dell’oro fuso, per perdersi in essi, come a cercare qualcosa di lontano e dimenticato per sempre.
Caled ricambiò lo sguardo e rabbrividì, scrutando come in uno specchio le tracce di un dolore bruciante e lontano, ma implacabile, come quello racchiuso nella sua anima.
Per un lungo istante che parve ad entrambi un eternità, restarono immobili, l’uno a riflettersi nell’essenza nell’altro, luce ed ombra, gelo e calore, vita e morte.
L’inquisitore alzò una mano, come per colpire...
L’attimo passò: il sipario delle palpebre oscurò il mare di ghiaccio, Maxmus voltò il capo di scatto e si avviò verso la pesante porta, sospirando.
Uscì dalla stanza senza rumore, come una silenziosa ombra di morte.

Il dolore era calato come un manto gelido nel grande salone di pietra.
Gli occhi dei musici e dei danzatori, fino a quel momento intenti a provare lo spettacolo della sera si volsero contemporaneamente verso Maxmus che li osservava tranquillo.
Le sue parole danzavano ancora nell’aria:
“Mi spiace, ma il vostro compagno è stato ucciso qualche giorno fa da alcuni tagliagole, giù alla locanda....”
Non c’era tristezza o compassione nella sua voce piatta e distaccata.
Dubric fu il primo a trovare il coraggio di parlare:
“Per il Dio Luce, Monsignore... E’ sicuro?”
L’inquisitore ebbe un moto d’ira, ma lo trattenne.
“Era un giovanotto sottile, con i capelli rossi come il fuoco: giusto? Lo aveva intravisto una delle guardie delle porte della città, quando era arrivato, ma gli era sembrato un normale viaggiatore... E’ stato sfortunato: qualcuno ha notato l’insegna della vostra congregazione e dato che per certa gente è molto preziosa, non ha fatto altro che tagliargli la gola e rubargliela...Tutto sommato Castrum Montana è una città piuttosto tranquilla, ma ci sono dei luoghi che è meglio evitare... Come la locanda dove è finito il vostro compagno, per esempio.”
Miriel inspirò a lungo, poi disse lentamente:
“Potremmo avere il suo corpo? I suoi dei erano misteriosi come lui, ma vorremmo egualmente celebrare un rito in suo ricordo...”
L’Inquisitore scosse il capo:
“Nemmeno questo è possibile. La milizia cittadina ha trovato il suo cadavere qualche giorno fa, e lo ha subito cremato. E’ questa la legge... E forse è meglio così: a quanto mi hanno riferito non era in buono stato... In ogni caso abbiamo preso e giustiziato i suoi assassini ed ho recuperato la vostra insegna... Mi spiace non poter fare di più...”
Tese la mano guantata sulla quale brillava il complicato medaglione d’argento che indicava la Congregazione dei Musici.
Nessuno si avvicinò per prenderlo e l’uomo lo lasciò cadere su di una panca di legno.
Il tintinnio che produsse fu come un lamento: gli occhi color dell’oro fuso, che fino a quel momento avevano brillato nella mente e nel cuore di tutti, animando la speranza, si chiusero, lasciando il vuoto.
Maxmus si strinse nelle spalle, il volto di pietra impassibile poi, avvolgendosi nel mantello di pesante raso nero si avviò su per la scalone centrale della sala.
“Un attimo ancora, Monsignore...” era la voce calma e modulata di Miriel.
Maxmus si voltò, incuriosito.
La Cantatrice, gli occhi fissi in un punto lontano gli si avvicinò, tenendo tra le braccia - come un bambino in fasce, la cornamusa di Caled..
Uno strumento prezioso ed antico, la sua unica ricchezza, il suo unico amore.
“Ti prego, Monsignore... Deponi questo strumento sulla tomba del nostro giovane compagno, perché lo vegli nei tempi a venire.”
“Non esiste tomba, donna. Le sue ceneri sono state disperse.”
“Ed allora falla bruciare e spargi al vento anche questa cenere: lì si ritroveranno e canteranno in eterno la loro canzone...”
Maxmus aggrottò le sopracciglia e fissò gli occhi di ghiaccio in quelli di fumo di Miriel. Forse sapeva, forse immaginava, forse ancora sperava... Ma lo sguardo inquisitore non riuscì a scorgere nulla.
L’uomo annuì bruscamente poi, prese con delicatezza la cornamusa e tornò a salire su per le scale.
Nessuno dei girovaghi chiese a Miriel il perché del suo gesto, e la donna rimase ai piedi dello scalone, il volto fiero, a scrutare la figura che si allontanava: l’aura dorata era un filo sottile, impercettibile, mentre quella nera era viva e pulsante, come il cuore del male.

Le ombre oscure della notte avevano già ammantato le cime delle montagne invalicabili: dalle strette feritoie della sua stanza Caled riusciva a mala pena a scorgerne alcuni sprazzi dai contorni indefiniti.
Faceva freddo: si sedette sul pagliericcio, stringendosi sulle spalle la rozza coperta di lana che aveva trovato nella stanza quando, quella mattina, vi era stato trasportato.
Si chiese per la millesima volta che cosa ne sarebbe stato di lui, e per la millesima volta si rispose che qualsiasi fosse stata la sua sorte, non sarebbe certamente stata piacevole Anche se allora erano una semplice eco lontana, sormontata dal dolore assoluto provocato dagli strumenti con cui il Mastro Carnefice infieriva sul suo corpo, le parole dell’Inquisitore, le sue domande incalzanti, talvolta frenetiche, gli erano restate fisse nella mente.
E con una minestra calda nello stomaco ed il dolore alle membra attutito dalla pozione che gli era stata somministrata, quelle parole avevano assunto un senso compiuto, e gli avevano spiegato con chiarezza perché un potente e temuto inquisitore si fosse accanito in modo così totale su di lui, un semplice musico.
Il suo sguardo corse di nuovo verso le montagne e rabbrividì: tutto sommato se quello che Maxmus temeva era la verità, morire sarebbe stato un ben misero male.
La porta in fondo alla stanzetta si aprì senza rumore e un’ombra silenziosa scivolò dentro. “Hai freddo, Musico? Sei fortunato... E’ solo il tuo corpo ad essere morso dal gelo, e non la tua anima, non il tuo cuore...”
“Come te, mio signore...- sussurrò Caled, senza alzare la testa - E’ davvero così grave? - aggiunse poi, titubante.
Maxmus si coprì gli occhi con una mano, come volesse scrutare lui solo, ancora una volta, la verità che portava racchiusa dentro di sé.
“Sei così simile a me, musico...Così simile come la notte lo è con il giorno ed il gelo con la fiamma... Eppure mi sembra di conoscerti da tutta l’eternità, più ancora che se tu fossi mio fratello... E questo non è possibile, e mi spaventa.”
Tirò fuori da sotto il mantello la cornamusa che Miriel gli aveva consegnato poche ore prima e la porse a Caled.
“Questo e questo solo è il tuo mondo, musico. Questo strumento, i tuoi compagni giù che in questo preciso momento stanno preparandosi al loro spettacolo, i vostri carri. Cosa hai a che fare tu con un Eroe, come me, schiacciato dal fardello di un’anima non sua, strappata ad un altro con le arcane arti della magia, solo per poter combattere una guerra assurda?”
La sua voce, per la prima volta dopo tanti anni, era venata dalla disperazione e lui non sembrava più l’arrogante e potente signore della Fortezza di Nimia, ma solo un uomo sfinito, straziato da un dolore troppo grande e troppo antico.
Ma Caled non poteva accorgersene, intento com’era a riempirsi gli occhi e il cuore dell’immagine della sua cornamusa, della sua essenza: ad accarezzarne ogni singolo componente, a cercarne con ansia e timore un graffio, una lacerazione, un velo opaco sulla sua perfezione immacolata.
Con le dita tremanti si portò la canna lavorata alla bocca, e come baciasse un’amante vi soffiò dentro, per dare ancora una volta la sua vita a quello strumento che era la sua stessa vita.
Il suono parve emergere dal nulla, e sembrò dapprima un gemito sottile.
Poi pian piano divenne il canto di un’anima impaurita e sola e infine dispiegò le sue ali maestose per trasformarsi in un inno d’amore e trionfo, di vita e vittoria. Di eternità.
L’uomo e lo strumento erano diventati una cosa sola, e parevano risplendere, la materia fusa nel suono, l’amore venato dal dolore.
Maxmus aveva osservato la scena dapprima contrariato, poi sprezzante.
Ma ne era stato conquistato a poco a poco per restarne, alla fine stupefatto.
Perché i suoi occhi di Eroe contemplavano l’impossibile: mentre Caled suonava assorto e rapito il suo prezioso strumento, attorno al suo corpo erano visibili due Aure. Ed entrambe erano d’oro scintillante.

“Per tutti gli dei della Notte, dove si saranno andati a ficcare quei sudici venditori di Narn? Magari in qualche stanza a rubacchiare una manciata d’argento per poi far ricadere la colpa su di noi... Che il Dio del Fuoco se li inghiotta: non mi sono mai piaciuti, dal primo momento che li abbiamo incontrati...”
Hyede, con indosso l’elegante costume di pelle e seta che utilizzava durante le rappresentazioni afferrò uno sgabello di legno e lo scaraventò contro un muro.
Miriel, avvolta nel prezioso abito grigio ricamato d’argento ricordo di un tempo perduto, strinse gli occhi, ma non cercò di calmare la furia del suo giovane compagno.
La rappresentazione stava per iniziare e, come se non fosse bastata la tragica morte di Caled, adesso ci si metteva anche la scomparsa dei sei ballerini.
Sembravano svaniti nel nulla.
Un suono breve e nervoso pervenne dalle dita livide di Silneus.
“Si, può essere pericoloso “ rispose Dubric preoccupato.
Ancora una serie di suoni, secchi e decisi.
Il Bardo sollevò una mano, tentando di sorridere rassicurante.
“Non credo che si siano serviti di noi per introdursi al castello... Dopotutto come potevano sapere che saremmo giunti fin qui, quando si sono aggregati alla nostra compagnia?
Probabilmente hanno commesso o stanno commettendo un furtarello, ma no, non credo che la cosa fosse premeditata.”
Hyede abbandonò le bacchette con cui suonava i suoi drums dai suoni cupi e, spinto da un impulso trasse dalla propria sacca la corta daga di acciaio brunito che in tempi ormai lontani era stata la sua fedele compagna e la sua unica speranza di un futuro. Qualsiasi esso fosse.
Miriel socchiuse gli occhi, silenziosa, e ascoltò le voci sottili delle ombre che sussurravano piano le loro storie.
E sentì il gelo stringerle il cuore.

“Non conosco il suo nome, né so chi fosse... Lo vidi a malapena, ero solo un bambino. Ma ricordo le sue grida e le sue maledizioni mentre lo trascinavano in catene... Era sporco e ferito: quando lo stesero sull’altare dell’Ultimo Dio bestemmiò come un ossesso... I sacerdoti gli si avvicinarono... Sento ancora l’eco agghiacciante del suo urlo. Quello che accadde in seguito non lo so: so solo che d’un tratto mi ritrovai solo e impaurito, immerso nella sua anima laida...
L’inquisitore parlava lentamente, gli occhi di ghiaccio fissi in un punto troppo lontano. “E’ un abominio, ma solo un Eroe dalle due anime poteva sperare di entrare nelle Terre Oltre e combattere alla pari con i Bedai. Quelli che partirono non tornarono, lo sai: tu stesso suoni le antiche ballate che raccontano le loro gesta.
Quelli che non partirono restarono di guardia,....”
“... Alle ultime porte che ancora collegano i due regni, vero monsignore? E qui a Castrum Montana ce n’è una. Cui sei incatenato tu.” Sussurrò Caled a mezza voce.
Maxmus parve non sentirlo e continuò con voce lenta e triste:
“...ad attendere un segnale oltre la porta ed a temerlo; a vivere una vita immensamente più lunga di quella degli altri uomini e soffrirne attimo dopo attimo.
E raggiungere la sera della vita prendendo per mano un bambino, accompagnarlo in un tempio nero dove un antico sacerdote gli darà una nuova anima, soffierà un terrificante potere nella sua bocca e lo condannerà in eterno....”
L’inquisitore sospirò poi aggiunse:
“Hai ragione tu, musico: sono incatenato a questa porta, e la chiave che collega i due regni è dentro di me, la nutro con la forza delle mie due anime. Purtroppo, spesso l’anima di fango di quell’uomo ignoto ruggisce la sua disperazione immortale e lotta per fuggire: questo indebolisce il mio potere e la forza che tiene chiusa la porta.
E c’è sempre il pericolo che qualche Bedai riesca ad intrufolarsi attraverso i Valichi Lontani: potrebbe approfittare della mia debolezza ed aprire il varco o per lo meno tentarlo...”.
“E’ mai successo, mio signore?”
“Non qui, mai nei tempi innumerevoli che sono passati da allora. Ma gli altri guardiani avevano due anime risplendenti e non l’abominio che mi divora... E’ questa la mia eterna dannazione, questo è il mio incubo eterno.”
“Adesso lo so, monsignore: il dolore che ti strazia è immensamente più grande di quello che ho provato nelle tue segrete.” disse lentamente Caled, cercando gli occhi di Maxmus. L’altro ricambiò lo sguardo, e gli occhi gelidi e disperati dell’Inquisitore si scolpirono indelebilmente nella mente e nel cuore del giovane musico.
“C’è un prezzo da pagare, quando si ruba l’anima ad un altro, anche se si tratta di un ladro di strada. E questo prezzo e grande quanto il valore dell’anima stessa.” disse Maxmus asciutto.
Caled, seduto sul pagliericcio della stanza gelida abbassò gli occhi e si guardo le mani bianche, ferite, venate d’azzurro.
“Era bella come il sole al mattino e fresca come la rugiada - disse d’un tratto, con un filo di voce, gli occhi velati di lacrime a fissare un ricordo lontano- E mi amava. Eravamo solo due ragazzini, ma io ero stato venduto al monastero di Onissac: lì regnavano la violenza e la follia e vi si adorava un Dio Inesistente fatto di musica e fumo. Ci scoprirono e ci portarono via: io ero un novizio, uno di loro: si limitarono a frustarmi ed a spalmare di sale le mie ferite... Ma lei era solo una ragazzina, senza valore, senza difese...La sacrificarono al loro Dio, battezzando col suo sangue questa cornamusa.
Quella notte, pazzo di dolore, diedi fuoco al monastero poi, nel caos che ne seguì riuscii ad impossessarmi della cornamusa ed a fuggire. Non so che cosa sia successo... Ma lei è lì, e so che quando suono quel prezioso strumento che la racchiude le nostre due anime si riuniscono.” Il silenzio scese nella stanzetta.
Ma fu un attimo: una serie di colpi si abbatterono sulla pesante porta di legno.
Caled e Maxmus si alzarono in piedi contemporaneamente: in quell’istante la porta si spalancò ed apparve il viso stravolto dalla paura di una delle guardie del palazzo.
“Invasione Bedai, monsignore. Tradimento” gridò con quanto fiato aveva in gola.
Dalle scale arrivavano urla e rumori di battaglia.
Il viso di Maxmus divenne di cera, gli occhi acuminati come lance.
Si voltò di scatto verso il musico, e lo guardò intensamente, decidendo in quegli interminabili istanti sia del destino del giovane che quello dell’intera Contea.
“Vieni con me - disse d’un tratto - Scopriamo insieme se è ancora tempo di Eroi...” e si avviò di corsa, impartendo ordini secchi e precisi.
Caled rimase per un istante a fissare il punto dove fino a pochi istanti prima era Maxmus, poi risolutamente si gettò sulle spalle il mantello nero che l’Inquisitore aveva lasciato cadere, afferrò la sua cornamusa e corse verso la battaglia.

Hyede sembrava danzare nell’aria, mulinando come una saetta in un cielo notturno la sua daga lorda di sangue fetido.
L’enorme Bedai lo sovrastava per mole e stazza ed il suo fetore era nauseabondo. Il suo corpo putrescente mutava, pareva scomparire d’un tratto per poi ricomparire in una nuova forma e in altre mille: ora serpente ora mulinello di braccia armate, ora abominio liquamoso ora guerriero contorto.
Questa era la mortale caratteristica della plurimaterialità Bedai.
Ma il giovane Hyede, il cui nome un tempo era Arkenos il Selvaggio, aveva visto le arene di Parr ed aveva dovuto impararne sulla sua pelle le regole atroci: il suo cuore era saldo e il braccio sicuro in ogni affondo della carne fetida del mostro.
La sala che avrebbe dovuto essere il loro palcoscenico era diventata un campo di battaglia: altri due guerrieri Bedai, contorti e giganteschi, combattevano con furia assassina contro un drappello di guardie, mentre urla, fumo e rumori provenivano da ogni angolo del palazzo. Miriel e Dubric, immobili e con gli occhi chiusi, intessevano le loro litanie di forza, accanto a loro Silneus agitando le sue dita sottili emetteva arcani suoni che le dirigevano poi verso Hyede e verso i soldati impegnati nella battaglia.
Il caos era scoppiato dal nulla pochi minuti prima, quando un drappello di soldati del palazzo aveva fatto irruzione nella sala, trascinando con sé tre dei sei ballerini scomparsi.
“Credo proprio che l’intero spettacolo lo farete nelle segrete del forte “ aveva detto feroce il Capo delle guardie, rivolto a Dubric, - E che dovrete spiegare al monsignore come mai tre dei vostri ballerini erano finiti nel vecchio passaggio sotterraneo del castello.... “ ma la sua voce gli era morta in gola quando questi ultimi avevano spezzato senza fatica le catene che li legavano e soprattutto gli incantesimi che mascheravano la loro vera natura.
Quella di Bedai.
Hyede, già pronto a vendere cara la pelle contro i soldati che lo avevano circondato era stato il primo a rendersi conto del pericolo mortale che incombeva su di loro.
Con un balzo frutto di antichi, massacranti allenamenti mai dimenticati aveva fatto un’acrobatica capriola nell’aria ed era atterrato di fronte ad uno dei tre mostri che stava squartando il Capo delle guardie e si accingeva a ghermire Miriel.
Senza attendere un solo istante aveva attratto la sua attenzione e dato inizio al duello più difficile e mostruoso della sua vita.
Ed intanto Dubric e Silneus avevano raggiunto la Cantatrice ed i tre, evocando antichi poteri avevano cominciato a salmodiare gli arcani mantra di protezione.
Dal cortile provenivano rumori di armi e grida agghiaccianti, mente le prime lingue di fuoco rosseggiavano nel cielo ammantato di sera.
In quel momento Maxmus era comparso in cima alle scale: Miriel parve percepirne la presenza, perché aprì di scatto gli occhi color del fumo e disse con voce chiara e sicura:
“Non restare qui, mio signore: noi quattro e le tue guardie siamo in grado di controllare il nemico: ma ci sono ancora tre Bedai in giro. Non so che cosa cerchino, ma qualunque cosa sia ti prego, non permettere che ci riescano...”
I suoi occhi non si fermarono o non si vollero fermare sulla figura sottile, ammantata di nero che comparve alle spalle di Maxmus: senza un sorriso chinò la testa e ricominciò a salmodiare ed a tessere la tela di forza che brandello dopo brandello andava a ricoprire Hyede e le guardie, proteggendoli dai colpi mortali delle armi nemiche.
Maxmus rimase in cima alle scale ancora per un istante, poi prese da una panoplia appesa al muro due preziose spade appartenute ai Reggitori Antichi e ne porse una a Caled, che con un sorriso triste la prese e la strinse forte nel pugno.
Poi insieme corsero verso i camminamenti che conducevano alla Torre Remota, dove gli Antichi Sacerdoti avevano sigillato la Porta Montana, il ponte che congiungeva il regno antimateriale dei Bedai al mondo di Rea.

Maxmus e Caled correvano nella sera, quasi senza accorgersi del fumo e delle urla dei soldati che cercavano di spegnere le fiamme appiccate dai guerrieri Bedai come diversivo per poter scoprire il passaggio che portava alla Porta Montana.
Dalle voci che avevano sentito durante il tragitto, pareva che uno dei Bedai fosse stato individuato nella Torre Sud, e che gli Incantesimatori erano in arrivo per proteggere i soldati durante lo scontro.
Ne restavano due: forse in grado di percepire il richiamo della Porta.
Man mano che si avvicinavano al luogo sacro e temutissimo, baluardo di vita e ponte di morte, le due aure di Maxmus avevano cominciato a risplendere, fino a diventare visibili, nella loro agghiacciante maestosità.
La colonna di luce nera era immensa ed il suo sforzo di espandersi e dilagare vittoriosa nel corpo di Maxmus era quasi palpabile. Ma ancora, tenace e feroce, la corda d’oro, ormai sottile come un filo di fumo, continuava ad avvolgerla nelle sue spire, frenandola nella sua espansione.
Ed era la sua energia che spingeva Maxmus a correre, ad affrettarsi verso la Porta Montana per rafforzarla con la sua vicinanza ed impedire alle arti Bedai di abbatterla per spalancare l’ingresso di Rea alle orde assassine.
Finalmente raggiunsero l’ultima rampa del camminamento. L’ombra della torre svettava imponente sulle antiche mura, costruita in tempi immemorabili contro il fianco della Montagna per custodire il passaggio, eterno monito per il Reggitore del Regno a non abbassare la guardia.
Mai.
La luce del giorno ormai aveva ceduto il passo alle ombre contorte della sera, e nel cielo vuoto di lune non splendevano ancora le stelle.
I guerrieri Bedai parvero spuntare dal nulla: un istante prima c’era il vuoto e il camminamento lastricato di pietra.
Un istante dopo c’erano due esseri contorti e putrescenti che erano riusciti a raggiungere la loro meta.
Maxmus si fermò di colpo, il volto di pietra, calmo, come se quella che stava contemplando non fosse la fine di tutto il suo mondo.
“Sta’ dietro di me, mio giovane amico: vedrai come muore un eroe.” disse con voce gelida, ed un sorriso stanco.
Si eresse in tutta la sua persona e sguainò la spada brunita che aveva stretto in pugno durante tutta la salita e si parò innanzi ai guerrieri Bedai che emettendo un suono animale gli si scagliarono contro.
Caled, alle sue spalle, vide la colonna di luce nera risplendere e ruggire trionfante, e per un istante parve non esserci più chiarore alcuno.
Ed allora il musico, spinto da un impulso intimo avvicinò la bocca alla sua cornamusa e suonò per l’eroe che doveva ritornare.
Le sue due aure splendevano come il sole ruggente del giorno...
... e il sottilissimo filo di luce dorata che circondava la colonna di luce nera attorno a Maxmus scintillò d’un tratto, si contrasse maggiormente e quindi esplose in un mare di gemme.
Caled vide vivere le leggende che aveva cantato in tutta la sua vita: smagliante nella corazza della sua anima trionfante Maxmus danzava contro gli esseri che rappresentavano la negazione della sua stessa natura.
...”Oh ti dirò che un solo eroe val cento soldati e la sua spada sarà il sole che ti benedirà danzando sul male che viene....”
Questo aveva cantato, questo vide.
I due guerrieri Bedai combatterono con la disperata ferocia di chi non può rassegnarsi a perdere lo scopo della sua esistenza ad un passo dal suo compimento.
Ma la spada di Maxmus non ebbe pietà e quando al termine della lotta questi si voltò verso Caled, era lacero e ferito, ma nei suoi occhi brillava una luce di gioia che sembrava illuminargli il viso.
Il musico modulò una nuova canzone, perchè l’Eroe era tornato.
L’Inquisitore senza curarsi dei due corpi dei Bedai che giacevano, osceni e putrefatti sulle lastre di pietra del camminamento si avviò verso Torre Remota, per accertarsi dello stato della Porta Montana.
Dopo qualche passo volse la testa per chiamare a sé il musico: fu allora che si accorse che c’era ancora un ultimo soffio di vita, in uno dei due nemici caduti.
La lancia forgiata nelle tetre fucine Bedai, in grado di trafiggere anime e corpi, partì veloce e mortale, inarrestabile verso il chiaro bersaglio della testa di Caled.
Gli occhi gelidi dell’Inquisitore guardarono le due aure splendenti sul giovane, poi seguirono la lancia per ogni infinitesimo tratto del suo tragitto e prima ancora di comprendere già sapeva quale destino stava per compiersi e perché.
Volteggiò quasi nell’aria gelida, superando gli orrendi corpi martoriati dei guerrieri Bedai immersi in una pozza si sangue fangoso e puzzolente.
Era maestoso nel suo volo di morte e quando la lancia lo trafisse si bloccò un istante a mezz’aria, come se il tempo stesso si fosse fermato.
Gli occhi sbarrati e limpidi di Caled lo videro stagliarsi contro il cielo illuminato dalle fiamme, le braccia spalancate, la testa reclinata da un lato e ed il sangue che cominciava a sgorgare dalla ferita mortale.
Ancora una volta gli occhi di ghiaccio lo incatenarono a sé: e un istante prima di chiudersi parvero sorridere.

Caled, era in piedi sul torrione più alto della Fortezza. Il vento furioso gli scompigliava i capelli color del fuoco e sembrava che fiamme divine gli incoronassero il capo. Laggiù, in fondo, verso l’imbocco della valle, i carri che si allontanavano erano minuscoli come schegge di carbone sul fondo di un paiolo.
Per un istante, un solo lungo istante provò l’irrefrenabile desiderio di correre giù dalla fortezza, inseguirli, raccontare loro ogni cosa, asciugare le loro lacrime e cancellare il loro lutto per lui, il musico scomparso.
Ma due gelidi occhi di ghiaccio, scolpiti nella sua mente lo fissavano, e lo avrebbero fissato, ora teneri ora inquieti, ora dolci ora folli, per sempre, per tutto il resto della sua vita.
“E allora, giovane Caled, è ancora tempo di Eroi?” gli aveva sussurrato.
Le sue parole sembravano impastate dal sangue che gli usciva a fiotti dalla bocca e Caled, annuendo, aveva premuto le labbra contro le sue, ed aveva aspirato quell’essenza primeva che lo avrebbe incatenato, per sempre, alla Porta.
Chiuse gli occhi bagnati di lacrime.
Si strinse al petto la sua cornamusa e, mentre il vento gli ululava attorno, avvicinò la bocca alla canna dello strumento.
“E’ sempre tempo di Eroi, amico mio.” Sussurrò piano.
Poi, dall’alto della Fortezza, suonò la sua ultima canzone alla libertà.